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 Parkour "Monkey Ronin"

 
PARKOUR 
 
L’art du déplacement (in francese, arte dello spostamento), meglio conosciuta come parkour, è una pratica sportiva davvero particolare. Nata nella periferia parigina di Lisses e venuta alla ribalta grazie ad internet e al coinvolgimento hollywoodiano di chi ne viene riconosciuto come l’ideatore, il francese 
David Belle, in film di successo come Brick Mansion e Banlieu 13, è un fenomeno che in Italia si sta diffondendo a macchia d’olio, grazie all’iniziativa di praticanti decennali che si stanno accingendo a promuoverlo attraverso corsi su tutto il territorio. L’obiettivo di questa pratica fisica, che coinvolge il corpo a livello olistico, è unico e semplice: seguire un percorso in linea retta, superando qualsiasi ostacolo ti si pari davanti, con la maggior efficienza di movimento possibile. Beninteso, con il termine efficienza, s’intende la ricerca del modo più veloce, semplice e soprattutto sicuro (la componente del praticare in sicurezza è un aspetto cardine della disciplina) di collegamento tra due punti all’interno di un percorso. Non per niente i praticanti sono denominati traceurs (“proiettile” in francese) o traceuses al femminile, nome derivante appunto dall’atto di tracciare una linea o una traiettoria attraverso l’ambiente. Spesso è etichettato come sport estremo o come un gioco tendenzialmente pericoloso dai media istituzionali… ma è davvero così? Lo studio della realtà diretta dei praticanti da parte di giovani sociologi e antropologi, aggiunto alla mia personale attività di ricerca condotta insieme al collega Mario Giavotto, mi ha portato a riflettere su alcuni aspetti interessanti che la disciplina porta con sé, di cui vorrei proporre alcuni spunti. Il primo aspetto riguarda la natura stessa di questa pratica. A differenza degli sport tradizionali, in cui il corpo viene disciplinato entro dei confini regolamentari precisi (es. un campo di gioco, un ring, una pista), nuovi sport come il parkour, nati e praticati in strada, manifestano la voglia di riappropriarsi della città, di trasformarla in un parco giochi, un “playground”, e di recuperare quegli spazi abbandonati, lasciati soli a se stessi, convertendoli in aree ludiche dove poter sperimentare la propria corporeità e il proprio repertorio di movimento. In questo senso, il parkour esprime sia la sua natura “boundaryless”, priva di confini, sia la sua tendenza a creare un legame “diversamente” consapevole con il territorio. Un altro aspetto molto interessante, che soprattutto i praticanti di lunga data conoscono molto bene, è l’emergenza di un fenomeno noto come Parkour Vision, un vero e proprio rapporto multisensoriale nato dal dialogo con i diversi ostacoli che influenza le routines percettive, trasformando ogni elemento architettonico in un potenziale ostacolo da superare. In pratica, è quell’abitudine percettiva che ti consente di riconoscere il “playground” all’interno della città, dandole un valore diverso, più consapevole, più giocoso, e che fa da motore alla voglia di sfidarsi e di mettersi alla prova. Un ulteriore aspetto è legato all’assenza di competizione. O meglio, di competizione esterna. Perché il traceur non deve gareggiare contro altre persone, né lo deve fare per un premio, una medaglia, o dei punti in classifica… insomma non ha rinforzi esterni né un avversario da battere. Egli gareggia per se stesso e contro se stesso. Compete con le proprie paure e i propri limiti sia dal punto di vista fisico (allenandosi a stare a proprio agio nella fatica) che psicologico (rielaborando le proprie credenze rispetto a sé e al proprio corpo). Il tutto all’interno di una filosofia che Nathaniel Bavington, ricercatore dell’Università di Newcastle e primo accademico ad aver studiato questa disciplina, riconosce come unità fondamentale del parkour: ogni ostacolo è un’opportunità per mettersi alla prova. Un ultimo aspetto che vorrei citare riguarda la dimensione psicosociale del parkour. Il confronto con l’altro non avviene in una ricerca di supremazia, ma attraverso scambio e condivisione della propria esperienza di pratica, trasformando il contesto sociale dell’”arena”, tipico degli sport tradizionali, in un contesto che somiglia di più a una “community”, fatto di dinamiche di collaborazione, supporto e assenza di giudizio. Inoltre, si può considerare il parkour una disciplina “povera” e, se vogliamo, democratica: per praticare bastano, infatti, una tuta comoda, un paio di scarpe running e… la città! Cosa che lo rende assolutamente accessibile a tutti. In conclusione, pur descrivendo a grandi linee e omettendo diversi altri aspetti per motivi di spazio, credo che discipline come il parkour abbiano un potenziale formativo molto alto e che debbano essere riconosciute alla pari degli sport tradizionali. L’utilizzo del corpo come strumento di esplorazione, tanto del mondo esteriore, quanto del mondo interiore, è a mio avviso il punto di forza che può farne strumento educativo a tutte le età. 
 
 
 
PARKOUR TAPPETO DI IQBAL
GRUPPO DI ANTONIO BOSSO
MONKEY RONIN
 
L’art du déplacement (in francese, arte dello spostamento), meglio conosciuta come parkour, è una pratica sportiva davvero particolare. Nata nella periferia parigina di Lisses e venuta alla ribalta grazie ad internet e al coinvolgimento hollywoodiano di chi ne viene riconosciuto come l’ideatore, il francese 
David Belle, in film di successo come Brick Mansion e Banlieu 13, è un fenomeno che in Italia si sta diffondendo a macchia d’olio, grazie all’iniziativa di praticanti decennali che si stanno accingendo a promuoverlo attraverso corsi su tutto il territorio. L’obiettivo di questa pratica fisica, che coinvolge il corpo a livello olistico, è unico e semplice: seguire un percorso in linea retta, superando qualsiasi ostacolo ti si pari davanti, con la maggior efficienza di movimento possibile. Beninteso, con il termine efficienza, s’intende la ricerca del modo più veloce, semplice e soprattutto sicuro (la componente del praticare in sicurezza è un aspetto cardine della disciplina) di collegamento tra due punti all’interno di un percorso. Non per niente i praticanti sono denominati traceurs (“proiettile” in francese) o traceuses al femminile, nome derivante appunto dall’atto di tracciare una linea o una traiettoria attraverso l’ambiente. Spesso è etichettato come sport estremo o come un gioco tendenzialmente pericoloso dai media istituzionali… ma è davvero così? Lo studio della realtà diretta dei praticanti da parte di giovani sociologi e antropologi, aggiunto alla mia personale attività di ricerca condotta insieme al collega Mario Giavotto, mi ha portato a riflettere su alcuni aspetti interessanti che la disciplina porta con sé, di cui vorrei proporre alcuni spunti. Il primo aspetto riguarda la natura stessa di questa pratica. A differenza degli sport tradizionali, in cui il corpo viene disciplinato entro dei confini regolamentari precisi (es. un campo di gioco, un ring, una pista), nuovi sport come il parkour, nati e praticati in strada, manifestano la voglia di riappropriarsi della città, di trasformarla in un parco giochi, un “playground”, e di recuperare quegli spazi abbandonati, lasciati soli a se stessi, convertendoli in aree ludiche dove poter sperimentare la propria corporeità e il proprio repertorio di movimento. In questo senso, il parkour esprime sia la sua natura “boundaryless”, priva di confini, sia la sua tendenza a creare un legame “diversamente” consapevole con il territorio. Un altro aspetto molto interessante, che soprattutto i praticanti di lunga data conoscono molto bene, è l’emergenza di un fenomeno noto come Parkour Vision, un vero e proprio rapporto multisensoriale nato dal dialogo con i diversi ostacoli che influenza le routines percettive, trasformando ogni elemento architettonico in un potenziale ostacolo da superare. In pratica, è quell’abitudine percettiva che ti consente di riconoscere il “playground” all’interno della città, dandole un valore diverso, più consapevole, più giocoso, e che fa da motore alla voglia di sfidarsi e di mettersi alla prova. Un ulteriore aspetto è legato all’assenza di competizione. O meglio, di competizione esterna. Perché il traceur non deve gareggiare contro altre persone, né lo deve fare per un premio, una medaglia, o dei punti in classifica… insomma non ha rinforzi esterni né un avversario da battere. Egli gareggia per se stesso e contro se stesso. Compete con le proprie paure e i propri limiti sia dal punto di vista fisico (allenandosi a stare a proprio agio nella fatica) che psicologico (rielaborando le proprie credenze rispetto a sé e al proprio corpo). Il tutto all’interno di una filosofia che Nathaniel Bavington, ricercatore dell’Università di Newcastle e primo accademico ad aver studiato questa disciplina, riconosce come unità fondamentale del parkour: ogni ostacolo è un’opportunità per mettersi alla prova. Un ultimo aspetto che vorrei citare riguarda la dimensione psicosociale del parkour. Il confronto con l’altro non avviene in una ricerca di supremazia, ma attraverso scambio e condivisione della propria esperienza di pratica, trasformando il contesto sociale dell’”arena”, tipico degli sport tradizionali, in un contesto che somiglia di più a una “community”, fatto di dinamiche di collaborazione, supporto e assenza di giudizio. Inoltre, si può considerare il parkour una disciplina “povera” e, se vogliamo, democratica: per praticare bastano, infatti, una tuta comoda, un paio di scarpe running e… la città! Cosa che lo rende assolutamente accessibile a tutti. In conclusione, pur descrivendo a grandi linee e omettendo diversi altri aspetti per motivi di spazio, credo che discipline come il parkour abbiano un potenziale formativo molto alto e che debbano essere riconosciute alla pari degli sport tradizionali. L’utilizzo del corpo come strumento di esplorazione, tanto del mondo esteriore, quanto del mondo interiore, è a mio avviso il punto di forza che può farne strumento educativo a tutte le età.